La dottoressa Emiliana Sanfilippo, medico infettivologo attualmente in servizio presso il reparto COVID-19 dell'Ospedale Bellaria di Bologna, ci racconta l'impatto di questa nuova emergenza sulla vita professionale e personale di tutti gli operatori sanitari coinvolti nella gestione della pandemia in corso.
Mi chiamo Emiliana Sanfilippo e sono un medico specialista in Malattie Infettive. Fino a tre settimane fa lavoravo presso la Divisione di Ortogeriatria dell'Ospedale Maggiore di Bologna ma da quando l'epidemia COVID-19 è diventata un’emergenza, prima nazionale e subito dopo mondiale, trasformandosi in una pandemia, presto il mio servizio in uno dei tre reparti COVID-19 dell'Ospedale Bellaria, che hanno a dispozione un totale di 150 posti letto di degenza.
Cosa succede in un reparto COVID-19?
I reparti COVID-19 sono reparti “riconvertiti” e nati in pochissimi giorni dove medici ed infermieri provenienti da altre realtà lavorative condividono un obiettivo comune: lottare contro il tempo e contro un nemico che abbiamo iniziato a conoscere sul campo. Le nostre iniziali azioni assistenziali e terapeutiche sono state tutte basate sull'evidenza clinica e spesso quelle che erano le nostre “certezze semeiologiche" sono venute meno.
I reparti COVID-19 sono reparti “riconvertiti” e nati in pochissimi giorni dove medici ed infermieri provenienti da altre realtà lavorative condividono un obiettivo comune: lottare contro il tempo e contro un nemico che abbiamo iniziato a conoscere sul campo
In questi reparti le camere sono spesso miste poiché l'elevato numero di accessi non consente una separazione adeguata degli spazi. Intere Divisioni, che prima erano destinate ad altre tipologie di assistenza, si sono trasformate in reparti dove i pazienti COVID-19 vengono costantemente monitorati tramite vari parametri di riferimento come emogas, temperatura corporea, saturimetria periferica e attraverso osservazione clinica. Il paziente, isolato nella stanza di degenza, riceve la visita da parte del personale infermieristico e sociosanitario per la somministrazione della terapia, igiene personale (nei pazienti non autosufficienti), rilievo dei parametri, prelievi ematici e vitto. Il personale medico esegue la visita giornaliera, prendendo decisioni sull'evidenza clinica e laboratoristica e confrontandosi con gli specialisti intensivisti, pneumologi ed infettivologi.
Se dovesse descrivere un paziente COVID-19 cosa ci racconterebbe?
I pazienti, spesso giovani-adulti maschi, vengono ricoverati dai pronto soccorsi limitrofi, con tamponi positivi e qualche volta con tamponi negativi o in corso ma con sintomatologia clinica e certezza radiologica di polmonite interstiziale. In anamnesi, soprattutto nel primo periodo, è presente febbre continuo-remittente già da 10 giorni e gestita a domicilio con terapia sintomatica. L'improvviso peggioramento delle condizioni cliniche e la comparsa di dispnea ed ipossia rende di solito necessario il ricovero ospedaliero.
Spesso per i pazienti più fragili (anziani con comorbidità), dopo vani tentativi terapeutici le decisioni sono mirate ad alleviarne la sofferenza quando si osserva un peggioramento irreversibile delle condizioni cliniche. La forzata lontananza dai propri familiari rende il tutto molto doloroso e se possibile cerchiamo di farli comunicare con le proprie famiglie tramite videochiamate. Ancora più spesso, i pazienti, che all'inizio del ricovero mostravano una prognosi favorevole, si complicano nell'arco di qualche giorno e ciò richiede il loro trasferimento nei reparti di terapia intensiva e semintensiva per un ulteriore ausilio nella respirazione che va oltre le nostre possibilità (supporto di ossigeno con maschere di venturi).
Che cosa avete imparato mano a mano che "conoscevate" meglio la malattia?
Con il trascorrere delle settimane abbiamo capito che un approccio precoce al supporto ventilatorio (c-pap) può preservare questa tipologia di pazienti da approcci più invasivi; inoltre, abbiamo intuito che il virus non comprometteva solo l'apparato respiratorio ma il danno provocato era sistemico.
Lavorare in sinergismo, dimenticando di essere specialisti ma solo medici, è la più grande esperienza formativa che possa accadere nella vita professionale di ognuno di noi
E' cambiato anche l'approccio terapeutico: oggi questi pazienti vengono trattati con una polifarmacoterapia che da un lato tende ad inibire la carica virale, dall'altro l'abnorme risposta immunitaria allo scopo di prevenire gli effetti devastanti anche di tipo vasculo-endotelitico-trombotico. In pochissimo tempo, abbiamo imparato ad utilizzare in modo appropriato i DPI e a definire le zone “sporche” da quelle pulite.
Nei giorni in cui cercavamo di lottare contro il "Nemico invisibile" abbiamo maturato la consapevolezza che, lavorare in sinergismo, dimenticando di essere specialisti ma solo medici, è la più grande esperienza formativa che possa accadere nella vita professionale di ognuno di noi.
Come è cambiata la vita personale e professionale di medici, che come Lei, si sono trovati in prima linea a fronteggiare questa emergenza?
La nostra vita professionale ed umana è stata investita in un tempo brevissimo da un terremoto di proporzioni enormi. Proprio come accade nei terremoti, le nostre certezze sono venute meno e con difficoltà stiamo cercando di costruirne delle nuove per il bene nostro e dei nostri pazienti.
Siamo esseri umani e dietro le nostre visiere, mascherine e camici di protezioni ci sono le nostre paure, il nostro senso di impotenza e la nostra rabbia
Siamo esseri umani e dietro le nostre visiere, mascherine e camici di protezioni ci sono le nostre paure, il nostro senso di impotenza e la nostra rabbia. Ogni paziente che riusciamo a preservare e guarire ci dà la forza di continuare, accompaganti dalla speranza di essere sulla strada giusta.
La felicità e l'emozione che scaturiscono quando riusciamo a dimettere ogni paziente, restituendolo ai propri affetti, ci ripaga dello sconforto e della paura, del senso di impotenza e dall’angoscia che tante volte in questi duri giorni ha preso il sopravvento. Io ed i miei colleghi, come tutto il personale sanitario in campo in questa Guerra, non eravamo preparati né ad affrontare né a gestire qualcosa di cui neanche immaginavamo la portata. La paura di infettarsi e di portare il virus a casa rimane tanta.
Oggi come appare la "nuova normalità"?
La normalità a cui eravamo tutti abituati non esiste più. Al di fuori dell’ospedale ci viene negata la possibilità di dare e ricevere un abbraccio da parte di chi amiamo, perché noi “potenzialmente infetti” potremmo arrecare un danno a chi amiamo di più. Da qui la scelta di tanti colleghi di allontanarsi dalle proprie case o di vivere separati in casa come è accaduto a me.
La normalità a cui eravamo tutti abituati non esiste più
L’aspetto più triste di questa Guerra è non potere toccare ed abbracciare i pazienti che non ci riconoscono sotto le nostre armature da “marziani” e dover comunicare le condizioni di salute ai familiari solo telefonicamente.
La nostra normalità si è trasformata, in un tempo che si è dilatato non riuscendo a vedere la fine, quasi abituati ad una vita in cui non esistono più gli orari ma soltanto il ripetersi delle nostre azioni. In questi ultimi giorni la "morsa sembra un po’ allentata", ma siamo sempre cauti e guardinghi, non ci fidiamo più delle nostre sensazioni.
Nell'ospedale in cui lavora sono già stati attivati dei percorsi assistenziali di supporto psicologico? Ci racconterebbe qualche iniziativa ...
Sì, l'AUSL di Bologna si è già attivata, mettendo a disposizione alcuni servizi di supporto psicologico sia per gli operatori sanitari che per i gruppi pazienti-familiari dove è stato necessario.
Infine, voglio essere ottimista per non vanificare tutti i nostri grandi sforzi. Chissà un giorno potremo tornare alla nostra nuova “normalità” con l’augurio che non sia più la stessa, che questo Virus oltre che funesto possa essere “salvifico" per le nostre umane coscienze, insegnandoci che Uniti ed Insieme si può Vincere!
Dott.ssa Emiliana Sanfilippo